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 E’ la prima volta che accade nella storia di questo sport: la Federazione Europea di Judo (EJU) assegna il riconoscimento di miglior arbitro donna d’Europa, per il 2018, alla stessa persona, per il secondo anno consecutivo.

Per l’Italia è un record assoluto.

Lei è Roberta Chyurlia, tarantina che ha attraversato il mondo, lavorando sodo, per portare a casa i risultati che conosciamo. L’ex atleta e campionessa nell’arbitrare gli incontri è stata anche la prima donna della Federazione Italiana Judo Lotta e Karate a potersi fregiare della qualifica di Arbitro Mondiale, nel 2015 a Bangkok, mentre nel 2011, ad Istanbul, è stata “incoronata” Arbitro Continentale.

Abbiamo intervistato la donna da guinness, alla quale abbiamo chiesto anche come si sente, in vista degli European Games (una manifestazione multisportiva), che si svolgeranno in Bielorussia. In quella occasione, Roberta riceverà il premio quale miglior arbitro europeo per il 2018.

Avverti una particolare responsabilità rispetto al tuo successo, ai riconoscimenti che tu per prima hai ottenuto, nell’ambito di una professione - lo sport - dove la competitività è il pane quotidiano?

Mi sento sicuramente responsabile per quello che rappresento, per il mondo dello sport e non solo, ma le responsabilità maggiori le avverto nei confronti della mia famiglia: mio marito, i miei genitori e tutte le persone che mi stanno accanto. Senza il loro supporto, nulla sarebbe stato possibile.

Ti sei avvicinata a questo sport da bambina. A casa hanno compreso sin da subito la tua passione oppure hai dovuto vincere delle resistenze?

Sono nata in una famiglia di sportivi, i miei praticavano entrambi judo, per cui è stato naturale per me avvicinarmi a questa disciplina. All’inizio non ho avuto problemi con i miei genitori, poi ad un certo punto del mio percorso, hanno cominciato a pormi degli ostacoli, ma solo per capire se quello che facevo corrispondesse ai miei desideri e non fosse, invece, il risultato dell’influenza familiare, seppure mai esercitata volontariamente. Volevano indurmi a riflettere sul mio percorso, ed hanno fatto bene. Non ho mollato, perché quello che faccio è sempre stata la mia passione.

Hai cominciato come atleta e poi sei passata all’arbitraggio. A quale età?

Ho cominciato a 5 anni. Ho vinto medaglie e riconoscimenti a livello nazionale; poi ho deciso che volevo passare dall’altra parte. A 24 anni ho arbitrato il mio primo incontro di judo, in occasione di un campionato regionale. Lì è cominciato tutto.

Sei stata selezionata dalla Federazione Internazionale di Judo (IJF) per Tokyo 2020, che raccoglierà i migliori arbitri al mondo. Che cosa si prova rispetto a questa scalata e quale è stata, tra i diversi campionati, l’esperienza internazionale che ti ha formato di più?

E’ un onore per me far parte della rosa dei migliori arbitri del mondo. Ho lavorato duro, animata sempre dalla mia grande passione per questo sport e per il mio ruolo di arbitro; ogni gara alla quale si partecipa, sia come arbitri, sia come atleti è un gradino sulla scala che porta ai grandi obiettivi. Per quel che riguarda le Olimpiadi, arrivarci non è affatto semplice. Bisogna aver fatto un percorso più che eccellente per accedere alle selezioni, che seguono delle regole molto rigide. Inoltre c’è da considerare che gli arbitri sono scelti anche in base alla quota parte che spetta a ciascun continente, nel caso delle Olimpiadi. Per avere un’idea di quanto sia difficile arrivare qui, basti pensare che su 300 arbitri valutati dalla Commissione europea, soltanto 12 partecipano a gare mondiali e solo 6 arrivano alle Olimpiadi. Rispetto alle esperienze che mi hanno formato di più, ogni competizione aggiunge qualcosa al tuo bagaglio. Tra le tantissime gare cui ho partecipato, posso citare il Master 2018 a Guangzhou, in Cina che raccoglie i 16 migliori atleti di tutto il mondo, per ogni categoria e il Grand Slam di Parigi: una delle poche sedi sportive al mondo con 20 mila persone paganti, per ogni gara. Non solo tifosi e spettatori amanti di judo e discipline di questo genere ma un pubblico che potrei definire specializzato. Sono tutti molto competenti e arrivano in Francia da ogni angolo del mondo.

Da quando hai cominciato ad arbitrare, sono passati quasi vent’anni, cosa è cambiato nel judo da allora, per gli atleti e per tutte le persone coinvolte?

Oggi c’è una maggiore specializzazione che investe tutti, si è abbassata notevolmente l’età della specializzazione soprattutto per gli atleti. Puoi valutare se un adolescente ha delle chance da atleta professionista, anche se ha solo 12 anni. In passato i ragazzi erano “giudicabili” come professionisti non prima dei 16 anni. Da circa sei anni a questa parte, inoltre, il circuito europeo è aperto anche alle classi giovanili. Su un altro versante, un altro elemento di cambiamento è rappresentato dai genitori degli atleti. Oggi tendono ad essere più protagonisti di quanto non lo fossero 10 anni fa e spesso registriamo ingerenze che danneggiano gli stessi atleti. Per fortuna non è sempre così, ma i casi di questo tipo non sono pochi. Gli atleti hanno a disposizione tanti strumenti in più oggi, anche solo il fatto che possano guardarsi i filmati delle competizioni e degli avversari sul web è un grande vantaggio, per la loro carriera. Per quel che riguarda noi arbitri, siamo certamente più consapevoli del nostro corpo, dobbiamo essere allenati tanto quanto gli stessi atleti.

Sei un arbitro sportivo ed anche un avvocato penalista, nel primo caso devi mediare, nel secondo devi prendere posizione, per preparare la difesa. Quali sono i punti di contatto tra i due ruoli?

Come avvocato, sono chiamata a difendere una parte contro un’altra, ma mi concentro prima sul caso. Valutando tutta la documentazione e i fatti nel loro complesso, quindi anche in questa sede sono due le posizioni sulle quali devo concentrare le mie capacità di analisi; cerco quindi di mantenere comunque una certa distanza rispetto al caso e alle parti. Solo così posso preparare una strategia difensiva. Per lo sport è diverso naturalmente, ma soprattutto nel ruolo di arbitro la prima cosa è conservare lucidità e una posizione di distanza da ciascuno degli atleti che si fronteggiano.